8 Marzo 2014

Un viaggio da Oscar

Viaggio al termine della notte
di Louis-Ferdinand Céline

 

Copertina romanzo_Viaggio

L’aver visto la luce nel 1932 non rende Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline (Corbaccio Editore) anacronistico e non solo per la sua citazione a esergo (prolusione ad un altro simile viaggio) della pluripremiata pellicola La grande bellezza di Paolo Sorrentino, trionfatrice alla notte degli Oscar quale miglior film straniero, che con il romanzo francese condivide le medesime intenzione e tensione impietosamente nichiliste seppur con una soluzione redentrice, una speranza revanscista più nell’opera cinematografica che in quella letteraria.
Nella disperazione di un secolo (il Novecento) berciata, quasi allo stremo, da un sardonico e dissacrante ghigno, un grido rivoltoso che si leva da ogni pagina, perfettamente e, talvolta, tragicomicamente identificabile con la contemporaneità, risiede la potente attualità del romanzo.
Cronaca autobiografica delle peregrinazioni di Céline, una delle personalità più controverse del secolo scorso, dell’anarchico, dell’eversivo, dello scandaloso Céline, narratore – dapprima soldato nel reggimento dei corazzieri poi medico dei poveri – della miseria morale prima ancora che materiale del mondo, e dalla quale spasmodicamente egli fugge (C’è un momento della miseria in cui lo spirito non sta già per tutto il tempo con il corpo. È quasi un’anima che vi parla. Non è mica responsabile un’anima). Una miseria raccontata attraverso gli orrori della Grande Guerra, le trincee delle Fiandre, la ferocia dell’Africa coloniale. Irreggimentato nel suo eversivo ed eterno “partire”, assicurandosi un ruolo sia da spettatore che da protagonista, la narra attraverso la retorica patriottica, il sibaritismo delle retrovie, l’avvento di una piccola borghesia affarista, l’umiliante condizione del migrante, la solitudine dell’affollata New York dove, qui sì, ogni “ uomo è un’isola”, l’alienazione tayloristica della catena di montaggio per cui “si esiste solo grazie ad una specie di esitazione tra l’inebetimento e il delirio”, la desolazione delle melmose banlieues parigine. Racconta un mondo corrotto, marcescente, degradato, degenerato, dissennato, del quale egli auspica la morte (la verità del mondo), ma per il quale, al contempo, prova un’autentica pena: “È forse questo che si cerca nella vita. Nient’altro che questo, la più grande pena possibile per diventare se stessi prima di morire.”
E scrive della gioventù: una gioventù “scampata alla mattanza del fronte tedesco, scampata senza giustificazione, non per la vita, non per la virtù, solo per uno schifo di caso.”
Un monologante e quasi lisergico delirio è il Voyage, retto da una prosa innovativa, ellittica, gergale, carica di argot, nella quale irrompe, generando spaesamento e vertigine funzionali alla narrazione, un improvviso e stuporoso lirismo nella descrizione di immagini dalla bellezza altrettanto stuporosa. Come quelle che Céline conserva in sé nel ricordo della donna amata, o quelle tese allo sforzo comune di farsi felici, di trattenere tutto il piacere del mondo nel presente, tutto ciò che si conosceva di meraviglioso in sé e nel mondo.
Quegli “sparuti, incostanti sprazzi di bellezza” . . .
Non è tenera la notte per Céline e la vita è un viaggio, “una scheggia di luce che finisce nella notte.” Un viaggio immaginario, un romanzo, nient’altro che una storia fittizia, dall’altra parte della vita, raggiungibile da tutti chiudendo gli occhi.

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