2 Novembre 2017

per le braccia che mi stringono

milk and honey
di Rupi Kaur

 

“l’idea che siamo
tanto capaci d’amore
eppure preferiamo
essere nocivi”

 

 

Quanto raccontano le dediche dei libri?
Tanto.
per le braccia che mi stringono è quella che si staglia  – bianca, piccola, ma tagliente ed eloquente – su di una pagina – nera, il negativo che permette il positivo -.
Le braccia sono quelle prepotenti di chi ha vigliaccamente abusato, ma anche quelle che, avvolgendo amabilmente, rappresentano la speranza di una vita.
Il potere della parola, si sa, è cosa acclarata anche già dal famoso adagio biblico “ferisce più la lingua della spada”.
Le sue sono parole d’amore, di dolore, di perdita e di rinascita, che, prima di assumere corpo cartaceo, assurgendo alla dimensione editoriale e posizionandosi per nove mesi ai vertici della classifica del New York Times, erano già un “fenomeno” su instagram. È qui, infatti, che Rupi Kaur è divenuta famosa condividendo i diversi stadi del proprio essere con milioni di followers e lettori.
Le liriche ermetiche, talvolta simili agli Haiku giapponesi, dell’artista indo-canadese (nata a Punjab e trasferitasi a quattro anni a Toronto), raccolte in milk and honey rispondono all’urgenza del suo giovanissimo cuore, implorante, di intraprendere un viaggio della sopravvivenza attraverso la poesia:

“questo è il sangue sudore lacrime
di ventun anni
questo è il mio cuore
nelle tue mani
questo è
il ferire
l’amare
lo spezzare
il guarire”.

Quattro sono i capitoli intitolati da queste quattro azioni sperimentate sulla propria pelle dall’autrice, cresciuta in una cultura retriva e violenta, accompagnati da illustrazioni stilizzate ed esplicite, dalla medesima realizzate.
Quattro verbi che l’hanno ristretta, intorpidita, vessata, piegata, strappata, sviscerata, rialzata, evoluta, ricucita.
Quattro differenti stadi di sofferenza e di caduta da cui riprendersi e risollevarsi, congeniti meccanismi capaci di cogliere l’ubiquità della dolcezza.

 


milk and honey
(per la casa editrice tre60) – nessuna maiuscola, quasi nessun segno di interpunzione nei suoi versi – è, dunque, un viaggio personale e terapeutico in cui naturale è l’identificazione di tante donne, giovani e non, toccate anche soltanto parzialmente dagli stati fisico-emotivi qui scandagliati e che potrebbe fungere anche da testo didattico e formativo per l’accettazione dell’altro, di quell’alterità troppo spesso “schiacciata”. Per una gestione dei generi, del conflitto tra di essi, oggi più che mai imprescindibile.
Definita un’instapoet e autodefinitasi un’ intersectional feminist, combattendo la discriminazione figlia della religione, del genere, del sesso, dell’etnia e della posizione sociale, Rupi Kaur è divenuta un emblema di forza e pugnacia grazie alle sue parole, laconiche ma potenti, e che per la loro connotazione talvolta un po’ naïf e acerba agevolano l’incontro del pubblico con la poesia iniziando, soprattutto i giovani, ad approcciarsi al genere.

“il mio battito accelera al
pensiero di partorire poesie
ecco perché non smetterò mai
di aprirmi per concepirle
fare l’amore
alle parole
è eroticissimo
per la scrittura
provo amore
o lussuria
o entrambi”

Le braccia aprono.
Le parole, violente, dolenti e ristabilite, fluiscono ferendo e cauterizzando sino a fare approdare ad uno stato di quiete dapprima con se stessi, poi con l’universo.
Un “ringraziamento” per aver forzato l’anima a dedicarsi all’atto del comporre, un fiore sbocciato, ed una lettera “d’amore da me a te” chiudono.
Ancora nero su bianco. Bianco su nero. Positivo e negativo che esistono in un rapporto (anche purtroppo) di reciproca funzione e il differente assorbimento della luce rifratto dall’essere umano.

 

com’è che ti viene così facile
esser buona con la gente chiese lui

latte e miele stillarono
dalle mie labbra mentre rispondevo

perché la gente non è
stata buona con me

 

 

Recensioni