9 Febbraio 2020

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«Appena vide la scuola pensò che forse Franklin aveva ragione: la Nickel non era poi così male. Si aspettava alti muri di pietra e filo spinato, invece non c’erano muri. Il campus era tenuto benissimo, una distesa di verde lussureggiante punteggiata di edifici di mattoni rossi a due o tre piani. I cedri e i faggi, alti e antichi, ritagliavano porzioni d’ombra. Era la tenuta più bella che avesse mai visto – una scuola vera, dignitosa, non il temibile riformatorio che si era raffigurato nelle ultime settimane».
Sono ispirate ad una storia vera le vicende de I RAGAZZI della NICKEL (Mondadori), i giovani “ospiti” di una scuola-riformatorio della Florida, epigono letterario della Arthur G. Dozier School for Boys di Marianna. Colson Whitehead affronta nuovamente i temi del segregazionismo e del razzismo, della cieca violenza, puntuale, tuttavia, nel distinguere, sempre, i colori.
Una storia brutale dove “i ragazzi anche da morti portano guai” e dove si è costretti a convivere con la Fabbrica del Gelato, la Casa Bianca e la Bestia Nera.

 

«Non ti amavo allora quanto ti amo adesso».
«Piove sempre, inizia a stancarmi».
«Zia, dove sei?».
«Pronto, nonno? Com’è che si passa il tempo dove sei?».
«Sono morte 71 persone in un incendio di un grattacielo di Londra».
«Se torni giuro, lo giuro…».
«Sei per caso tu che mi nascondi le cose? Ultimamente non trovo più niente…».
«Ho trovato il tuo diario, mi dai il permesso di leggerlo?».
«Mamma, sono Hana. Ti ricordi ancora di me? ».
«Papà?».
Una cabina con un apparecchio telefonico “scollegato” situata su di una montagna nel nord-est del Giappone. Parole consegnate al vento, indirizzate ad assenti, rivolte a presenti. La Natura è violenta e stupefacente. L’essere umano impotente spettatore e impermeabile ma al contempo fiducioso attore. Con Quel che affidiamo al vento (Piemme) Laura Imai Messina racconta di voci, di silenzi, di perdite, di traguardi. E poi?
[continua]

 

«L’addestramento inizia subito. I bambini devono imparare le nozioni basilari. Come impugnare una pistola, reggere all’urto del rinculo, utilizzare le mitragliette Uzi o i kalashnikov, sparare con la lupara. In questi addestramenti gli strappano l’anima e chiudono la loro coscienza in una cassaforte. I bambini diventano macchine per uccidere. Assassini micidiali e spietati in grado di eliminare anche un loro fratello. Chi sbaglia o ha ripensamenti viene ucciso. Non c’è posto per i sentimenti».
Gennaio 2009. Giuseppe Bascietto, giornalista che dal 1992 si occupa di mafie e di criminalità economico-finanziaria, riceve una telefonata. È Claudio Carbonaro, il capoclan dell’altra mafia, la Stidda, impegnata, negli anni Ottanta e Novanta, in una sanguinosa e disumana faida contro la Cosa Nostra di Riina e Provenzano e combattuta da un plotone di spietati baby killer.
STIDDA – L’altra mafia raccontata dal capoclan Claudio Crabonaro (Aliberti Compagnia Editoriale) è il memoriale di quegli anni infernali affidato al giornalista siciliano.
[continua]

 

«Non so dove è finita la mia stella.
Ma so che se smetto di cercarla
per me finisce il cielo»
F. Nietzsche

 

 

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