21 Marzo 2020

Adagio_Primavera_1

 

«In quel momento si udì una voce forte e secca, voce di qualcuno che, dal tono, sembrava abituato a dare ordini. Veniva da un altoparlante fissato sopra la porta da cui erano entrati. Fu pronunciata tre volte la parola “Attenzione”, poi la voce attaccò. Al Governo rincresce di essere stato costretto a esercitare energicamente quello che considera suo diritto e suo dovere, proteggere con tutti i mezzi la popolazione nella crisi che stiamo attraversando, quando sembra si verifichi qualcosa di simile ad una violenta epidemia di cecità, provvisoriamente designata come mal bianco, e desidererebbe poter contare sul senso civico e la collaborazione di tutti i cittadini per bloccare il propagarsi del contagio».
La memoria letteraria in questo tempo precario corre da un titolo all’altro. Oltre a La peste di Camus e a I Promessi sposi di Manzoni, di estrema attualità è il romanzo distopico scritto nel 1995 dal Premio Nobel per la letteratura José Saramago. Cecità (Feltrinelli) racconta di una inspiegabile epidemia che, in un tempo e in un luogo indefiniti, colpisce l’intera popolazione. Il virus, altamente contagioso, non risparmiando nessuno (fatta un’unica eccezione), provoca un’improvvisa cecità: il “mal bianco” che ammanta la vista con una luce lattiginosa. Gli effetti catastrofici generano terrore, violenza e prevaricazione in nome di un brutale istinto di sopravvivenza. Cecità è la metafora di un’umanità feroce e bestiale, di una società (Governo incluso) in cui il buio dell’anima e della ragione alimenta il proprio interesse sospinto da un cieco egoismo, ma il finale aperto a diverse interpretazioni può far intravedere un barlume di luce.
«Non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che, pur vedendo, non vedono».

«Al mondo esistono due tipi di cose: quelle che capisci subito e le altre. Alle cose che capisci subito, basta che ci passi davanti una volta. Ma le cose che non ti sono subito chiare inizi a comprenderle dopo, piano piano, frequentandole, e diventano man mano ‘una cosa diversa’, come ‘La strada’ di Fellini. E, ogni volta ti rendi conto che quello che vedevi non era che un piccolo frammento del tutto.
Il tè è così».
Prendersi il proprio tempo, rallentare, vivere il presente senza farsi travolgere dalle distrazioni, guardare il mondo intorno a sé come se fosse la prima volta, ascoltare la natura connettendosi con essa, ascoltare le stagioni, cogliere gli odori del vento, dell’acqua della pioggia…
Sono quindici le gioie che Morishita Noriko scopre quando, ventenne, inizia a frequentare le lezioni della signora Takeda per apprendere la cerimonia del tè. Inizialmente indecisa e scettica, la ragazza ignorava che sarebbe stato un viaggio iniziatico sulla profonda ricerca di se stessi lunga un’intera vita.
Ogni giorno è un buon giorno ~ Quindici gioie che il tè mi ha insegnato (Einaudi) è un racconto autobiografico, un piccolo e prezioso gioiello in cui Morishita Noriko, con incisiva levità, narra dell’antichissima tradizione giapponese del tè, del suo rituale composto da piccoli ma calibrati gesti. Affascinante, evocativo e metaforico, ogni passaggio del rituale, codificato dai monaci buddisti del sedicesimo secolo, dona il giusto valore e significato ad ogni frammento dell’esistenza, regalando una piccola gioia versata e racchiusa in una tazza.

«Ritornando a casa, mi venne in mente mio padre, lungo le strade e i posti che amava. L’odore di umidità e di finocchietto selvatico. Lo splendore soffuso del castello. Ecco la Caccuri a cui chiedevo conforto. Perché un paese, per quanto male potesse averti fatto, per quanto te ne fossi allontanato, era casa tua, il luogo della costruzione, degli affetti. Lo era stato, tanti anni fa, e continuava a esserlo ancora».
I profumi di una terra, di un tempo, di un piccolo mondo antico, esalano potenti dalle pagine di Cosa rimane dei nostri amori (Aliberti) di Olimpio Talarico che nel suo paese d’origine Caccuri, in provincia di Crotone, ambienta un memoir familiare dalle sfumature gialle.
Il suo è un viaggio tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta, tra Roma e il piccolo borgo calabrese, vero protagonista del romanzo, capace di ostentare bellezza, di celare misteri e segreti e di suscitare  quel sentire contraddittorio di repulsione e attrazione verso i luoghi natii, soprattutto se di provincia. Dal rinvenimento di due cadaveri nel giorno dei festeggiamenti di San Giuseppe, il 19 marzo 1964, dei quali viene (ingiustamente?) accusato il padre di Jacopo Jaconis, all’epoca un bambino di sette anni, si dipana la trama. E proprio sul fondale di quella terra cruda, conchiusa, in cui l’umano è capace anche di aberrazioni, si svolge un’annosa ed epifanica indagine che vede coinvolto Jacopo, musicista e autore di colonne sonore, nel tentativo di scagionare il padre, ex preside e inveterato amante della letteratura.
In concorso tra altri 53 titoli per il Premio Strega 2020, Cosa rimane dei nostri amori è un racconto sulla memoria, sui legami, sulla ricerca dentro se stessi delle intime espressioni emotive.

 

 

«Per la prima volta lei lo guardò in viso. Per la prima volta Flush guardò la signora adagiata sul divano. Entrambi furono colti da sorpresa. C’era una somiglianza fra loro. Due metà divise, ma dallo stesso stampo, poteva essere che ognuno completasse ciò che nell’altro era latente?».
La più riuscita incursione dell’immaginazione umana nella sensibilità canina” appartiene a Virginia Woolf che nel 1933 scrisse Flush. Biografia di un cane. Galeotta la lettura della corrispondenza epistolare tra la poetessa inglese Elizabeth Barrett e il poeta Robert Browning, la Woolf dedicò acute pagine al cocker spaniel di «razza purissima, rosso di pelo e con tutte le stimmate della sua specie» che un giorno d’estate del 1842 giunse nella residenza di Elizabeth Barrett.
Sempre in ossequio ai suoi crismi stilistici e, in parte, tematici, nella narrazione della pugnacia e del coraggio della figura femminile, nella descrizione circostanziata dei costumi e delle figure dell’epoca, e nell’ironia espressiva, la Woolf narra, così, la vita di Flush dalla campagna inglese a Wimpole Street, la strada più elegante di Londra. Flush è un amico fedele e un compagno geloso ed è dotato di pensieri antropomorfizzati che lo inducono a comprende di dover imparare ad apprezzare tutto quanto la sua padrona ami.
Impreziosito dalle illustrazioni di Iratxe Lopez de Munáin, l’ultima edizione di Flush. Biografia di un cane è edita da Feltrinelli.

«Sono apparso come individuo all’improvviso, gettandomi nella società di donne e di uomini che esisteva da sempre e che somigliava tanto a casa mia. E in quel circo che era la mia famiglia c’era un’unica legge, che ho sempre dovuto rispettare per essere me stesso e insieme uno di loro: esiste solo chi ama. (…) e mi sono innamorato della prima cosa che ho trovato a casa, e me ne sono innamorato di un amore che, nei giorni senza amore, avrebbe rappresentato l’amore stesso fino  a confondersi con esso.
La prima cosa che ho amato, come l’ultima, d’altronde, è la mia squadra di calcio del cuore. Il suo nome è A.S. Roma».
Hermann Hesse sosteneva che la felicità fosse amore, nient’altro: «Felice è chi sa amare. Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa sente se stessa e ne percepisce la propria vita. L’amore non vuole avere; vuole soltanto amare». È di questo amore che Sandro Bonvissuto scrive in La gioia fa parecchio rumore (Einaudi). Una storia romantica, nell’accezione più pura del termine, dell’amore di un bambino per la propria squadra, un amore incondizionato, che non pretende, perché «ad amare quando si vince sono capaci tutti». Un sentimento maturato all’interno di una comunità allegra che nulla tiene nel cuore e avvezza ad amare anche nelle avversità. È la storia di una generazione di amanti, in un’altra Italia, in un’altra Roma, quelle sul calar degli anni Settanta.
È la storia di un movimento collettivo dalla fede giallorossa nella quale, tuttora, chiunque, cambiandone i colori, potrebbe riconoscersi. Non è, tuttavia, una storia di calcio bensì un inno alla vita berciato come un coro allo stadio.
«Si nasce quando si impara ad amare e finché si ama si resta vivi».

«Non giudicarti
Non giudicare le altre madri
Detesta la società in cui vivi con il sorriso
Abbandona i modelli e le regole, tutte tranne queste
Dai il massimo, ma senza ammazzarti
Rispondi all’aggressività del mondo esterno con lieta indifferenza
Fai quel che ti sembra rendere felice te, il bambino e, già che ci siamo, il/la partner
Non parlare al bambino con le vocine idiote
Sii la madre che vorresti aver avuto
…E se non riesci ad applicare queste regole, stai tranquilla, la risposta è sempre quella: Sticazzi».
Sono alcune, queste, delle regole d’oro rivolte da Carla Ferguson Barberini alle donne che scelgono la maternità abbracciando una salvifica filosofia di vita che aiuta a superare stress e disagi derivanti dall’esperienza umana. Con Mamme felici con il Metodo sticazzi (Aliberti), il collettivo di professionisti della comunicazione, sotto l’anonimato di uno pseudonimo, torna con un manuale di sopravvivenza ironico e dissacrante in cui il Metodo Sticazzi, da loro ideato, viene ora applicato al tema della maternità. Un testo esilarante dedicato a tutte le donne, madri e non madri: a coloro che devono sopravvivere a questa “prova di forza” e a quelle che la fuggono come la peste. Le prime dedite esclusivamente alla sopravvivenza  e alla felicità del neonato a costo delle proprie, le  seconde schiacciate dal peso del giudizio. A tutte le lettrici (che inevitabilmente vi si ritroveranno) Carla Ferguson Barberini dà il benvenuto, raccomandandosi di vivere ironizzando e non drammatizzando.
«Martina a un anno dalla nascita di Stefano è in forma. Lei e Mario si sono concessi un viaggio tra le colline del centro-Italia. Stefano è contento, prova a pronunciare le prime parole, capisce tutto, interagisce con la mamma e il papà con un’intelligenza curiosa che li spiazza tanto è vispa. Un giorno durante una passeggiata in un bosco gli cade di mano il cestino, non inizia a frignare come temono i due, ma li guarda con un visetto tondo e birichino che è proprio un amore e, con il tono di un angelo, dischiudendo le labbra ciliegine dice la sua prima parola: “Sticazzi”».

 

«Non mettetemi accanto a chi si lamenta
senza mai alzare lo sguardo,
a chi non sa dire grazie,
a chi non sa accorgersi più di un tramonto.
Chiudo gli occhi, mi scosto di un passo.
Sono altro. Sono altrove»
Alda Merini

 


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