13 Gennaio 2017

Circo e cerchio_Gennaio


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Londra. 1899. Fevvers è la più famosa aerialist (trapezista) del momento, criptica attrazione internazionale, dinnanzi la quale tutti si prostrano. L’attrattiva è ascrivibile alle protuberanze simili ad un paio di ali che albergano sulla sua schiena. “Finzione o realtà” è, infatti, il suo personale e icastico slogan che ora campeggia sulla parete del camerino. Nel tentativo di sciogliere l’arcano, un giornalista giunto da New York per intervistarla, si ritrova irreggimentato nelle fila circensi in veste di clown per accompagnare la “Donna alata”, “l’Ange anglaise” nella sua tournée. Londra, San Pietroburgo, Siberia…..
La prima volta che Walser si truccò si guardò allo specchio e non si riconobbe. Mentre contemplava l’estraneo che lo sbirciava con aria interrogativa, provò un accenno di quella vertiginosa sensazione di libertà che non l’avrebbe più lasciato per tutta la durata della sua permanenza nel circo. Fino al momento in cui lui e il colonnello non si separarono, quando anche il suo io, o l’idea che ne aveva, gli disse addio, Walser conobbe la libertà che si cela dietro la maschera, nella dissimulazione, la libertà di giocare con il proprio essere e con il linguaggio, elemento fondamentale dell’essere, la libertà che è insita nella parodia.”
Una libertà ludica, connaturata, sensuale, seducente e bizzarra è quella raccontata da Angela Carter, iconoclasta voce della letteratura inglese, in Notti al circo, a febbraio in libreria per Fazi Editore. Una visionarietà che rimanda alle oniriche atmosfere del geniale Miyazaki, con i suoi tormentati e ambigui personaggi proteiformi.
Definito dall’autrice stessa un “Dickens psichedelico”, il romanzo nel 1984, anno della sua prima pubblicazione, si è aggiudicato il James Tait Black Memorial Prize, tra i più antichi e prestigiosi premi letterari del Regno Unito.

“Non solo tutti i personaggi e gli ambienti del libro sono interamente immaginari; lo sono anche gran parte dei dati tecnici, medici e psicologici. Il mio motto è stato il seguente: non saprò granchè di scienza, ma so quel che mi piace. – Londra, ottobre 1974
Si apre con questa nota dell’autore Dead Babies, in Italia per Einaudi Futuro anteriore. Chi conosce Martin Amis sa cosa aspettarsi da questo romanzo scritto nel 1975, stesso periodo di ambientazione della storia: quello della presunta liberazione seguita alla rivoluzione sessuale degli anni Sessanta. Quindi per chi, invece, non avesse ancora avuto l’immenso piacere di leggere l’autore inglese…ça va sans dire! Tre giorni (un week end) di edonismo, sibaritismo, trasgressione, tra alcol, droga e giochi sadici (eufemisticamente parlando) nella villa di un sobborgo londinese. Protagonisti sono gli appleseeder, gli americani e gli “altri” tra cui un ferale ospite inatteso, e tutta l’abilità diegetica e la ferocia letteraria di Amis.

Séguito di Se questo è un uomo, gioiello della letteratura concentrazionaria, La tregua (altrettanto meritevole) è il diario con cui Primo Levi documenta le tappe del proprio rientro in patria dalla deportazione al campo di sterminio di Auschwitz, liberato dall’Armata Rossa nel gennaio del 1945. Un’Odissea di trentacinque giorni, idealmente ben più lunghi dei vent’anni omerici, attraverso l’Europa post bellica riportata in diciassette capitoli pervasi da analitica lucidità e in cui si leva una struggente e insperata possibilità di vita e di libertà. Una sorta di perenne circolarità, tra vita e morte, tra speranza e scoramento, tuttavia sembra essersi inevitabilmente insidiata nell’animo dell’autore, come in quello di chiunque abbia vissuto (nella fattispecie) il dramma della Shoah. Un dramma dal quale la comprensione va bandita in quanto significherebbe giustificarlo. “Nell’odio nazista non c’è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dall’uomo”, scrive, infatti, Levi.
Era il 19 ottobre del 1945 quando lo scrittore giunse nella città natale, Torino: “(…) la casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ritrovai un letto largo e pulito, che a sera (attimo di terrore) cedette morbido sotto il mio peso. Ma solo dopo molti mesi svanì in me l’abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento.”

 

«Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finchè suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
“Wstawać”
E si spezzava in petto il cuore,
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero
“Wstawać”.»
11 gennaio 1946
[La tregua]
Primo Levi

 

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