16 Novembre 2017

Angeli e Demoni

Diavoli custodi
Erri De Luca – Alessandro Mendini

 

“Erano gli occhi più affilati di una falce tagliente
fino al bruscolo nella pupilla e fino alla goccia di rugiada
eppure a stento imparavano in tutta la statura
a distinguere la solitaria moltitudine delle stelle.”
Osip Mandel’štam, febbraio 1937, esilio di Voronež 

 

 

Leggere Erri De Luca significa entrare nella sua vita.
A
ttraverso il suo verbo preferito “mantenersi“, tenersi per mano, si viene afferrati dalla sua, vigorosa, ruvida, ma calda e accogliente, apparentemente distante forse per l’educazione ricevuta.
Una mano che fa il paio con quella di Alessandro Mendini, design e architetto, fautore di una “progettazione critica, cosciente e poetica”, qui ispirata dai disegni, raffiguranti mostri, di un bambino dislessico caro ad entrambe.
Con Diavoli custodi (Feltrinelli) il poeta napoletano e l’artista milanese danno vita ad un’opera a quattro o meglio a due mani e a due matite, impugnate per assecondare idiomi differenti, ma complementari.
Una disegna, l’altra scrive.
Pagina sinistra e pagina destra, immagine e scrittura notoriamente impegnate in una sorta di stato di perenne belligeranza “sospendono ora le ostilità“, guadagnandosi la sinistra la precedenza (contravvenzione letteraria?), da cui la destra trae a sua volta ispirazione.
I tratti della “sinistra”, il cui inchiostro suggestiona la “destra”, presa come “alla sprovvista”, delineano incognite colorate o in bianco e nero, criptiche e suggestive “macchie rorschachiane”.
Il risultato è un eterogeneo serraglio di “mostruosità terrestri” che assumono le sembianze di paure, passioni, timori, tentazioni, drammi, volti, voci, silenzi.
I mostri sono i diavoli custodi dell’infanzia, nessun angelo può tenerli a bada, scrive De Luca. Sono come i ricordi, le cicatrici, gli inciampi, gli strappi, angeli e demoni, dolci ed esulceranti al contempo, custodi invisibili e compagni ingombranti di un’intera esistenza.
Trentaquattro sono i diavoli custodi tracciati, evocati, poi interpretati per libere associazioni visive, mentali, empatiche, da cui trapelano l’amore per la città di Napoli, per il mare, per l’alpinismo, la passione per “la storia sacra”.

Diavoli-angeli custodi sono le obbedienze odierne, capaci di mostruosità impensabili; la gelosia per cui “una qualunque ambizione va praticata con la più vigilante modestia“; la vita raccontata in venticinque righe (bellissime) di colui che fu accusato di irriverenza verso le autorità e crocifisso; le due astinenze alimentari: trote e ciliegie, retaggio e memento di una storia di sangue e dolore: Non furono diete. Non hanno calato di un grammo il peso lordo del nostro Novecento“.

Sono gli effetti collaterali della scrittura, come la dissociazione: 

Credo che mi salvi Napoli, essere nato in una folla con accanito desiderio di identità personale. Non si tratta del desiderio di celebrità, ma del giusto contrario: il bisogno struggente di non essere confuso con nessuno. Perciò la città è teatrale nella maniera più capillare, ognuno sta in una parte rappresentata con la precisione della marionetta. Ognuno è il marionettista di se stesso. I fili che impugna da maestro sono i suoi stessi nervi, dai facciali in giù. (…) Devo all’educazione napoletana l’abitudine a farmi da parte e lasciare il posto a un impostore narrante. Essere spodestato, assistere di lato alla durata di una scrittura, essere il primo lettore di una storia che ha per autore il mio nome. È comodo e mostruoso.

È il concetto di identità che si raffina anche a contatto con chi non si stima “aggiornando le proprie differenze”.

La vita randagia di operaio mi offriva scarsa occasione di approfondimento di me stesso. Facevano supplenza i libri che leggevo , portandomi alla superficie i tratti e i nervi. Qualcosa di me stava sbriciolato nelle pagine delle storie altrui. La letteratura è stata per me ogni volta l’ingresso in una città nuova, a casa d’altri. Ero e sono un lettore ospite senza invito diretto. Mi sono perciò serviti gli incontri e gli urti con uomini sballati, canaglie dal mio punto di vista. Ognuno di loro mi ha lasciato una sua pezza che ho rivoltato e cucito a toppa di vestito.
L’animale arlecchino della pagina a fianco, sono io.

Sono le catastrofi naturali, le guerre, il nazismo, la libertà, il dramma dei migranti, il diritto legittimo degli oppressi ad insorgere:

“Appartengo ad un secolo violento. Ho conosciuto la volontà di una giustizia di parte, che si è presa il diritto di assestare colpi. Il riscatto degli oppressi si è manifestato in ogni epoca e più intensamente nel Novecento. Il ricorso alle lotte armate clandestine è stata la forma più prevalente dei movimenti di liberazione. Nelson Mandela, guida dell’African National Congress, ha preso le armi contro il regime segregazionista bianco in Sudafrica. La sua organizzazione è stata a lungo inserita nella lista di quelle terroristiche. (…) Chi lotta in nome degli oppressi deve escludere il rischio di colpire gli inermi. Il loro diritto alla violenza è la fionda in mano a Davide. Un solo infallibile proiettile deve abbattere Golia, sapendo di tirarlo attraverso una cristalleria da lasciare illesa.”

È l’ingresso, è il vuoto, è il primo passo:

“Il primo passo di discesa è strappo, forte come quello di due che si lasciano al binario. Il primo metro del treno che li stacca, fa il rumore di una camicia lacerata. Le mille miglia successive squarciano di meno.
Ognuno scende da un abbraccio, da un’età, da un viaggio. Ecco qui il primo passo, a testa bassa, per non inciampare.”

 

Sono le voci nel silenzio; la potenza della natura, quella della parola soprattutto se “contraria”; il concetto della morte, quello della resurrezione (“togliere alla morte l’ultima parola” è pratica consueta in cui negli ultimi anni privatamente De Luca si accanisce).

È l’architettura “dello spreco”; le figure politiche che aizzano paure pubbliche e private; la suggestione come manifestazione della verità, provocandone però lo sbandamento; l’attivismo mosso da quell’intimo pronome personale NOI, ricorrente nelle diegesi dell’autore, che rimanda alle lotte degli anni Settanta e a quell’impegno “civile” e prepotente (di cui non tutti sono capaci), che lo portò, carrista, anche nella guerra in Bosnia a contrabbandare medicinali durante l’embargo.

È il “burning body” –la tavola appena sparecchiata è il mio albero in fiamme” – abitato dai cari scomparsi che si succedono al medesimo desco; lo è il cuore che si ferma; l’artista (in camice bianco) che “riporta in superficie la vita che scorre sotto traccia“; la mano appoggiata ad una parete dritta al cielo, indurita dalla calce e dal cemento o sorpresa da una carezza sotto ad un tavolo; un occhio non più abile alla vista e quello cieco alle differenze.

 

Diavolo custode è, infatti ed infine, anche l’indifferenza (“la rinuncia a stabilire le proprie differenze”), sentimento poco conosciuto da Erri De Luca che insieme con Alessandro Mendini animano un carteggio di mostruosa e colorata poesia.

 

“La mia gioventù politica riconosceva invece le sue differenze e perciò risentiva passionalmente le disuguaglianze, le lotte di liberazione da tirannie e da imperi coloniali”
(…)
L’indifferenza è un accorgimento per ingannare i sensi, li frastorna per il tempo necessario a non intervenire. L’antidoto è stato scritto molto tempo fa: amare il prossimo come te stesso. (…) il verbo chiede di sprigionare la più forte energia del corpo umano. Nessuna attenuante, né risparmio: si prescrive l’estremismo dell’amore. Senza tornaconto, senza aspettativa di essere corrisposto (…)
Allora il mondo intero deve ricadere sulle spalle del singolo?
No, per questo è scritto il prossimo. È il superlativo di vicino, è il vicinissimo, quello che cade nel cerchio immediato dei sensi di un altro. Di quello è tenuto responsabile.”

 

 

 

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