20 Ottobre 2017

Diavoli e grandi Opere_Ottobre

 

 

«Quindici minuti di standing ovation e dieci chiamate alla ribalta. Quella sera Luciano Pavarotti fu un gigante in scena. Anche dopo l’ultima nota, si profilò sul palco la sua ostinata presenza fisica, con le grandi braccia aperte nel gesto impossibile di accogliere a sé ogni spettatore seduto in palco e platea, di stringere ogni coppia di mani piena d’applausi, di respirare ogni grido di entusiasmo a lui dedicato. Braccia aperte e in bocca ancora “e muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita”, così straziante e sublime, una revolverata al cuore di quattromila persone percorse dallo stesso brivido. Ce la fece anche in quella notte epica, una delle tante e diversa però da tutte le altre: in sipario c’era la gioia del trionfo attorcigliata alla malinconia del commiato. Pavarotti non sarebbe più morto su quel palcoscenico: il maestro stava dando l’addio alle scene alla Metropolitan Opera House. Piazza difficile ma lusinghiera, il teatro a lui così grato lo salutava in modo davvero friendly srotolando un colossale striscione rosso e bianco: “We love you Luciano”. Era la sua 379esima e ultima volta a New York e la lirica non sarebbe più stata la stessa.»
È la voce di Silva Edwin Fredy che parla, meglio noto nell’ambiente come Tino o ancor più come Ciccio, alla stregua di tutti coloro che rientravano nella sfera confidenziale del maestro.
PAVAROTTI ed IO – Vita di Big Luciano raccontata dal suo assistente personale (Aliberti compagnia editoriale), come desumibile dal titolo alquanto parlante, è un accorato ricordo narrato da colui che per tredici anni fu l’ombra del “tenorissimo”, “il figlio che Dio non gli aveva dato“.
Il segretario, confidente, sodale di gioie e dolori, testimonia qui la vita di Pavarotti cadenzandola come una vera Opera andando dall’Ouverture, alle prove, dal Primo al Secondo all’Ultimo Atto intervallati dagli Intermezzi, sino al Sipario, calato il 6 settembre del 2007.
Corredato da inedite fotografie, quello che si delinea è un ritratto sincero, genuino, umano, non soltanto del Pavarotti-tenore ma anche del Pavarotti-uomo. Un ritratto aperto, senza filtri come il suo sorriso traditore del profondo amore per la vita che attraversò “con il suo foulard al vento“.
Da questo tributo scritto dal peruviano Edwin Tinoco verrà tratto un documentario diretto da Ron Howard.

“Più avanti, vale a dire uno, due e tre anni dopo, ogni volta che Ferguson guardò indietro e pensò alle cose che accaddero fra l’autunno1966 e la laurea di Amy all’inizio di giugno 1968, diversi avvenimenti dominavano nella sua memoria, risaltavano vividi malgrado il tempo trascorso, mentre molti altri, se non quasi tutti gli altri erano ridotti a ombre: un dipinto mentale formato da varie zone immerse in una luce intensa, chiarificatrice, e da altre zone di buio pesto, figure informi in angoli bruni e tenebrosi della tela, e qua e là chiazze di nero nulla assoluto, l’oscurità avvolgente dell’ascensore dello studentato.”
È questa una delle quattro identità in cui si declina il protagonista di 4 3 2 1 , il nuovo romanzo (in Italia per Einaudi) di Paul Auster.
Archie Ferguson, nato a Newark il 3 marzo del 1947, ora è un campione sportivo, ora un giornalista, un attivista, ora è uno scrittore. Quattro identità, quattro espressi e in potenza, narrati attraverso il se(nno) di cui proverbialmente sono piene le fosse, che procedendo parallelamente tuttavia si intersecano, si contaminano, con elementi ricorrenti e costanti, soprattutto uno: la medesima donna.
Dopo sette anni di silenzio l’autore americano torna con un opera-molosso (ben 939 pagine) per giocare con il destino, calato negli accadimenti storici, per gettare luce sulla poesia, sulla formazione, sulla crescita, sull’amore, sulla vita tanto intelligibile quanto criptica.
Inevitabili sono le assonanze cinematografiche con Sliding Doors e per la vertigine generata, benché stanti differenze contenutistiche e stilistiche, assonanze letterarie con la Controvita rothiana.

“L’immagine e la scrittura quando vanno insieme si affrontano. L’immagine, che ha più vasta platea, dispone la scrittura a sua didascalia. La scrittura invece vuole che l’immagine sia a sua illustrazione.
In questa occasione sono sospese le ostilità. Qui l’immagine ha la precedenza e da lei ha origine la pagina di destra, che è seguente.”
Un architetto, artista e design, Alessandro Mendini, ed un poeta e scrittore, Erri De Luca, in Diavoli custodi (Feltrinelli) raccontano quelli che sono “i diavoli custodi dell’infanzia”, delineandone l’anatomia, ma anche qualificandoli con nomi appartenenti ai mostri, alle paure, alle tentazioni compagni di un’intera vita, non soltanto dell’infanzia, fase da cui il libro prende le mosse.
Un’opera a quattro mani e a due matite, impugnate per assecondare idiomi differenti, ma qui complementari. Una disegna, l’altra scrive un eterogeneo serraglio di mostruosa e colorata poesia.

 

“Conoscersi per me significa infittire il mistero, non diradarlo.
Mi sono conosciuto in una febbre, in una calma improvvisa, in un cedimento.
In ognuno dei casi avrei preferito di no. Si tratta di accidenti accaduti a un qualche me stesso, monodose, scartato dopo l’uso.”
[Diavoli custodi]
Erri De Luca ~ Alessandro Mendini

 

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